Marion d’Amburgo: il mio teatro è memoria che ascolta la realtà (e la città)

Il compito di introdurre l’intervista “Made in Culture”, questa volta, lo affido alla poesia:

… Pupara sono
e faccio teatrino con due soli pupi
lei e lei
lei si chiama vita
e lei si chiama morte
la prima lei per così dire ha i coglioni
la seconda è una fessicella
e quando avviene che compenetrazione succede
la vita muore addirittura di piacere.

Sono i versi della poetessa siciliana Jolanda Insana scelti da Marion d’Amburgo, protagonista di questa intervista, per descrivere il mestiere dell’attore.

Marion d’Amburgo, nella storia del teatro italiano degli ultimi trent’anni, ha rappresentato il volto, la voce e il corpo di un teatro ‘altro’ (a partire dall’esperienza della compagnia teatrale dei Magazzini Criminali). Un teatro che ha scardinato vecchi schemi, scosso platee di ben pensanti, incantato generazioni di spettatori e regalato pagine di pura arte teatrale.

Un’esperienza che è sicuramente un patrimonio da salvaguardare, a volte un passato da cui prendere le distanze, ma soprattutto una vita “Made in Culture”

Per cominciare: perché hai scelto il teatro?

Sono stata scelta da una necessità interiore, dal bisogno di conoscere gli aspetti più oscuri dell’uomo. Tutto è cominciato attraverso un sodalizio tra adolescenti. Vivevo in un mondo ancora arcaico su cui si stavano innestando con violenza nuovi modelli culturali consumistici. Per me si trattava di uscire da una realtà che in quel momento consideravo ristretta e dove mi sentivo compressa. Come ogni adolescente, volevo tutto e subito. Vivere contraddizioni spesso forti e laceranti è stato uno degli aspetti caratteristici della mia generazione.

E nel teatro cosa hai trovato?

Non ho seguito un iter classico, non ho fatto scuole. Tutto da inventare, tutto da cercare, tutto da costruire. Una creatività terribilmente esigente che non si faceva limitare da regole e censure. Una sola regola: la necessità di esplorare ogni possibilità del linguaggio teatrale. L’abbondanza e la generosità di energie messe in circolazione ha permesso di aprire il linguaggio attoriale a esperienze che hanno lasciato il segno.

Oggi agli attori è spesso richiesto di indossare i panni di operatori culturali e occuparsi di aspetti ‘organizzativi’ del loro lavoro, cosa ne pensi?

Penso al sodalizio tra Paolo Grassi e Giorgio Strehler: due modi di vivere e vedere il teatro assolutamente complementari. Grassi e Strehler erano due vasi che comunicavano; l’uno conosceva le esigenze e i limiti dell’altro e sono riusciti a raggiungere risultati quasi inimmaginabili. Erano le due facce di una stessa medaglia.

Oggi i due saperi sono completamente scissi: il bisogno dell’artista spesso non viene tradotto negli aspetti organizzativi e il risultato è scoraggiante. Io invito sempre i miei colleghi a occuparsi anche degli aspetti organizzativi, sono convinta che il modello sia quello della bottega artigiana, dove manualità e ingegno convivevano in perfetto equilibrio.

Un modello poco diffuso oggi?

Il lavoro, anche il lavoro artistico, purtroppo è diventato spossessamento, nevrosi. L’atto artistico non può fare a meno del corpo. I processi che riguardano la manualità, la manipolazione della materia devono tornare a essere centrali nel processo artistico. La manipolazione della materia porta in primo piano il concetto di presenza, capta forze, energie incalcolabili. La bottega artigiana per me è un modello anche per quello che riguarda la trasmissione delle competenze.   

Sento che il nostro presente, il clima in cui siamo immersi, non è adeguatamente presente nelle opere degli artisti contemporanei, sento lo smarrimento della visione della nostra umanità, del nostro passato, della nostra memoria. La memoria in tutti i suoi aspetti mi attrae moltissimo.

Avverto una grande difficoltà da parte dei vari medium artistici di leggere la complessità del nostro presente. Credo che contemporaneo sia quell’artista che non coincide con il suo tempo, e che non si adegua alle sue pretese, che è inattuale, ma proprio in virtù di questo è capace di captare il suo tempo.

Cosa rappresenta per te la memoria?

La memoria è il collante di una identità culturale, uno strumento di cui non possiamo fare a meno. Vivo in prima persona l’esigenza di riagganciare il passato da cui mi ero allontanata; è molto facile e comodo tagliare le radici, ma rischi di rimanere in balia del vento. E il vento, si sa, ti porta dove vuole. La memoria ti consente di afferrare la tua vita, accoglierla e guardarla criticamente. E’ il solo messaggio che mi sento di dare alle nuove generazioni.

Il dialogo con i giovani è sicuramente un aspetto delicato della cultura contemporanea, non solo italiana. Come lo si può affrontare?

Bisogna partire da un dato di fatto: con le nuove generazioni non abbiamo un linguaggio comune. Siamo mondi lontanissimi che comunicano a fatica. E non è certo scegliendo la via della semplificazione che la situazione migliora. Io mi arrabbio moltissimo quando sento dire che per lavorare con i giovani bisogna “semplificare”.

Non è “semplificando” che si crea un ponte tra generazioni, i ragazzi di oggi hanno fame di complessità e se questo li rende interlocutori non facili, è anche vero che spesso si tratta d’incontri interessanti. Ho lavorato con giovani che non avevano interessi artistici con lo strumento della poesia e ho trovato risposte di grande spessore.

Gli adolescenti sono scrigni con aculei, c’è bisogno di un grimaldello per aprirli ma poi… che meraviglia! Se sentono che comunichi con loro solo con gli strumenti della razionalità, si chiudono; hanno bisogno di strumenti del cuore per entrare in sintonia con il loro interlocutore. Purtroppo viviamo in un sistema che esclude i giovani e spesso vuole che non pensino.

Qual è la tua opinione sul problema del finanziamento alla cultura?

In Italia il finanziamento alla cultura ha ormai raggiunto livelli bassissimi, direi inesistenti. Purtroppo ci portiamo dietro un modello di sostegno che è sempre stato di tipo assistenzialistico, e che ha diffuso la triste pratica del vitalizio. Se mi guardo intorno, oggi non vedo alcuna voglia di far crescere e costruire una rete che diventi cultura diffusa. Abbiamo bisogno di politiche culturali che puntino ad allargare la trama e siano in grado di trasmettere sapere reale.

Quale può essere il ruolo dell’artista nella società contemporanea?

L’artista è un accecato che nella sua cecità sviluppa e amplifica ciò che lo circonda, una ricetrasmittente sempre in ascolto. Chi è chiamato all’operatività artistica, non per opportunismo ma per necessità, sente la responsabilità di indicare una via, di instaurare un rapporto intenso con il pubblico. La generosità la considero una dote fondamentale per ogni attore.

Negli ultimi anni la scrittura sembra aver preso il posto del teatro nella tua vita, come stai vivendo questa nuova fase artistica?

La scrittura corrisponde a un percorso nel silenzio. Solo dopo molto tempo di pratica, di continui errori, ti offre uno scalpello che permette di modellare quello che sinora è stato riposto nell’angolo più oscuro del tuo essere. La scrittura mi sta impegnando in un lavoro di macerazione e manualità, ma è incantevole la sua urgenza. Mi vedo come la prozia proustiana in poltrona che borboglia e lavora.

Essere una donna, e una madre, come ha influenzato il tuo lavoro di attrice?

E’ stato fondamentale, anche se non facile. La tradizione ha riservato per molto tempo a noi attrici ruoli standardizzati (si poteva essere o sante o puttane) affermare il proprio ruolo di attrice, autrice, proprietaria e responsabile del proprio essere e della propria creatività è stata una sfida continua.

Essere madre, poi, è stata un’esperienza unica, ma anche in questo caso non mi sono mancate le critiche della società. Per me la maternità ha significato un’apertura alle cose, il momento in cui sono riuscita a entrare in sintonia con una realtà che, per tutta una serie di motivi, mi stava portando verso una nevrosi. Ho fatto un processo di rilettura del mio passato, un’esperienza salutare anche se difficile.

Oggi con mio figlio, che ha 27 anni, condividiamo una grande passione: il cinema ed è lui il mio primo critico. Un critico che pretende da morire e che non mi ha mai fatto mancare la sua protezione.

Il tuo messaggio “Made in Culture” per i lettori del blog?

Il malessere di questo momento storico è stato interpretato solo con la razionalità. Si è puntato a creare una frattura tra razionalità e spiritualità. Forse è arrivato il momento di fare appello a energie e risorse che non sono solo quelle del profitto e dell’economia.

Mi viene in mente Aleksandr Sokurov, un autore che porta lo spettatore dentro la complessità della realtà umana e riesce ad aprire un canale di comunicazione nuovo e profondo. Il mio consiglio è di aprire le finestre e non temere di misurarsi con ciò che ci circonda e che magari all’inizio non comprendiamo.

Spesso mi metto in ascolto della mia città, uno spazio che trasmette un’energia nervosa, piena di contraddizioni, ma in cui pulsano tutte le profonde contraddizioni del nostro presente. Tornare a comunicare con tutti gli attori sociali, anche nel mondo della cultura, è l’invito che rivolgo a tutti noi.


E voi siete pronti ad aprire le finestre e mettervi in ascolto delle vostre città? Non c’è bisogno di attendere la luna piena… ;)

 

Le foto pubblicate sono di Pietro Squillaci (a colori), Guglielmo Nappini (in b/n), Marion d’Amburgo (“i miei tetti”)

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