Andrea Maulini: “Il pubblico della cultura? E’ social e non aspetta altro che di essere raggiunto”

Andrea Maulini

Ci sono interviste il cui dietro le quinte meriterebbe un racconto a parte. Come questa che ha per protagonista Andrea Maulini. Il motivo? Per mesi ci siamo rincorsi in stile staffetta 4×400 con passaggi di testimone (file, telefonate ecc…) a dir poco acrobatici, ma alla fine ce l’abbiamo fatta.

Andrea Maulini, per chi non lo conoscesse, è uno dei primi in Italia ad aver creduto nella dimensione web (e social) della cultura. E vi assicuro che non è cosa da poco, visto che ‘l’intuizione’ risale al 1997, quando ancora molte aziende non sapevano bene cosa fosse un sito internet.

Una sfida partita da un avanposto della cultura made in Italy come Il Piccolo Teatro di Milano e che lo ha portato negli anni a occuparsi di numerosi enti culturali, dai teatri ai festival, ai musei, alle realtà di turismo culturale.

In poche parole, la persona giusta per misurare il grado di social innovation della cultura italiana.

La cultura italiana è diventata social?

Non ancora, siamo ampiamente in ritardo. Solo negli ultimi anni alcune strutture culturali italiane hanno cominciato a ragionare in termini di comunicazione web e social; che non vuole dire solo aprire una pagina Facebook, ma capire che la comunicazione tradizionale, anno dopo anno, funziona sempre meno, mentre quella che ha una dimensione social assume sempre più importanza.

E’ un processo che altri Paesi, soprattutto anglosassoni, hanno avviato da almeno dieci anni con risultati importanti e dove ci sono strutture culturali con attività di comunicazione molto avanzate.

L’Italia è indietro e lo è soprattutto perché le nostre strutture non rispondono in modo adeguato alle sollecitazioni di un pubblico sempre più social.

Cosa ha convinto la cultura italiana a investire sulla comunicazione social?

“Investire” non è il termine corretto. Diciamo che si è iniziato a prestare attenzione a questo settore e a capire che è un’attività che ha bisogno di professionalità. Fino a poco tempo fa – e in alcune realtà è ancora così – la prassi in Italia era di aprire pagine Facebook o altri social e affidarne la gestione a chi avesse tempo per farlo: stagisti, oppure persone non formate per questo. Una situazione che rispecchiava l’idea di una comunicazione che non serviva più di tanto.

Che cosa ha provocato questo cambio di rotta?

Il processo è cominciato per il motivo più classico: le strutture culturali hanno visto diminuire il loro pubblico e sono corse ai ripari. Sostanzialmente hanno capito che la risposta non poteva più essere quella standard utilizzata sino ad allora.

A Milano, per esempio, in occasione di Expo molte strutture si sono trovate a gestire un pubblico sempre più internazionale e questo ha comportato un radicale ripensamento della loro strategia comunicativa. Allo stato attuale, direi che possiamo parlare di un comportamento indotto.

E’ un’evoluzione che ha a che fare con l’età del pubblico?

Non particolarmente. Bisogna sfatare il mito che i social siano utilizzati soprattutto dai giovani. Facebook, per esempio, è diffuso soprattutto nella fascia di età 25/50 anni, una fetta di popolazione su cui molte attività culturali vanno a impattare.

L’uso sempre più consistente dei canali social da parte di questa fascia di pubblico è ciò che ha indotto le strutture a dotarsi di strumenti di comunicazione innovativi. Un esempio sono i teatri d’opera, tra le realtà culturali con maggior successo sui social e che, paradossalmente, sono proprio quelle a cui è tradizionalmente attribuito un pubblico agé.

In realtà, molti teatri d’opera, sia all’estero sia in Italia – penso alla Scala di Milano, il San Carlo di Napoli o l’Opera di Firenze – hanno decine di migliaia di fan su Facebook e un seguito notevole sugli altri social media, e questo dipende dal fatto che hanno saputo costruire un’immagine di se stessi che è anche un’immagine social.

Passiamo ai contenuti della comunicazione: è più facile raccontare o coinvolgere?

I termini inglesi sono storytelling ed engagement e sono i due concetti base della comunicazione social. A prima vista sembrerebbe più difficile coinvolgere che raccontare, ma è vero il contrario.

Coinvolgere, per un ente culturale che si occupi di teatro, musica, arte è qualcosa di connaturato al rapporto che lo lega al suo pubblico. Un pubblico che si sente parte di una comunità e considera abbastanza naturale interagire con essa.

Io collaboro da molti anni con il Piccolo Teatro di Milano e il pubblico quando parla del Piccolo usa molto spesso il termine “noi” e in questo “noi” include anche quanti, come me, lavorano nel teatro. Un chiaro esempio di engagement, non c’è che dire.

Raccontare, invece?

Raccontarsi è molto meno naturale. Perché raccontare non è semplicemente comunicare le politiche di una direzione artistic; vuol dire mostrare il dietro le quinte di una realtà complessa, ricca di suggestioni; vuol dire descrivere perché vengono fatte delle scelte e come si costruisce uno spettacolo o un evento; vuol dire mostrare gli artisti in una luce più umana e meno istituzionale.

Significa aprirsi e condividere senza il timore di perdere qualcosa, tutt’altro. In fondo stiamo parlando di arte e della magia che da sempre caratterizza ogni creazione artistica. Una magia che dovrebbe essere comunicata, non nascosta.

Affrontiamo ora il problema formazione professionale: requisiti essenziali per un social media manager in ambito culturale?

Quanto tempo hai? Scherzi a parte, la prima cosa è che le persone che si occupano di attività social siano interne, o almeno collegate direttamente con la struttura e quindi la conoscano bene.

Chi legge pensa che a gestire i contenuti sia direttamente il top management, o il direttore artistico. Ecco perché il linguaggio, il contenuto e le immagini pubblicate, devono essere assolutamente coerenti con la mission di chi comunica.

Non è possibile impostare una campagna di comunicazione, soprattutto continuativa, ricevendo solo degli input periodici. Sarà banale, ma quando andiamo a raccontare un evento culturale è fondamentale conoscere tutto in dettaglio.

Perfetto. E poi?

E poi bisogna studiare. Quando due anni fa mi sono occupato del Festival Puccini di Torre del Lago, la prima cosa che abbiamo fatto con il mio team di lavoro è stato studiare la figura di Puccini e la sua storia personale e musicale per raccontarla al meglio.

Ma studiare vuol dire anche analizzare i concorrenti, il territorio di riferimento, il pubblico a cui ci rivolgiamo. Lavorare con i social oggi vuol dire gestire un’attività complessa e avere a che fare con un pubblico sempre più attento e preparato.

Quali sono i tre elementi chiave di una strategie di marketing culturale oggi?

Innanzitutto la continuità! Che vuol dire, se ci occupiamo di un festival che dura pochi giorni, dobbiamo continuare a parlarne per tutto l’anno. La continuità di comunicazione è essenziale. Deve essere chiaro a tutti che interfacciarsi con l’esterno è una priorità, in ogni momento.

Chiaro! Con che cosa proseguiamo?

Il secondo elemento: parlare attraverso  più mezzi. Non è solo una mia opinione personale, ma un fatto acquisito che Facebook da solo non basti più. Avere un sito lo considero scontato, anche se mi vengono in mente almeno dieci situazioni di realtà culturali che per motivi diversi (soprattutto nel caso di enti pubblici) non ne possiedono uno.

Va detto comunque che, rispetto alla molteplicità di strumenti che abbiamo a disposizione, i social veramente utili per una struttura culturale si riducono a una decina.

Io considero come pacchetto minimo di intervento in questo settore: Facebook, Twitter e YouTube. Sono i tre social media più utilizzati e rispecchiano tre differenti linguaggi: il linguaggio del racconto, quello della brevità della comunicazione pratica, e il linguaggio video.

A questi si aggiunge il linguaggio fotografico, con Pinterest e Instagram. E poi, a seconda dei casi, può essere utile attivare Vimeo, con video di alta qualità; o Flickr, un altro catalogo fotografico; e ancora Soundcloud o Spotify, se ci si occupa di musica; o Linkedin, se ci si rivolge anche a un target “professionale”.

Il terzo elemento?

La differenziazione della comunicazione. I contenuti e i linguaggi della comunicazione social non possono essere sempre gli stessi.

Anche se mi sto occupando di un solo personaggio, devo scoprire tutte le storie che gli ruotano attorno e raccontarle in più contesti e modi. Questo significa, tra l’altro, che è necessaria un’attenta politica editoriale: cosa verrà detto, su quale media, a chi, con quali tempi.

Esempi di eccellenza nel mondo della comunicazione culturale social?

Inizierei con il dire che in ambito culturale esistono tre tipologie differenti di soggetti che comunicano: i teatri e i festival, i musei, e le realtà che operano in una logica di turismo culturale.

Per quanto riguarda i teatri non posso che parlare di realtà anglosassoni, ad esempio la Royal Opera House e la Royal Shakespeare Company. Due istituzioni teatrali, rispettivamente di opera e prosa, che esprimono un linguaggio, una modalità d’interazione e una logica comunicazionale veramente eccellente.

Quando faccio un tweet che le riguarda scelgo come hashtag #altromondo, perché stiamo proprio parlando di un altro mondo.

Giusto per fare un esempio: la Royal Opera House  ha recentemente pubblicato “What do you see?”, un video che in poco più di un minuto racconta in modo meraviglioso tutto ciò che succede dietro le quinte, facendo capire il nostro lavoro molto meglio di qualunque libro, o seminario, o convegno. Un vertice di comunicazione aziendale, non solo culturale.

Oppure, sempre Royal Opera House in occasione della messa in scena de “La Valchiria” di Wagner nel dicembre del 2012, ha realizzato un esperimento di diretta web dal titolo “The Opera Machine”.

Durante il terzo atto dell’opera sono state attivate contemporaneamente 17 telecamere che hanno offerto al pubblico del web una straordinaria visione dello spettacolo, non solo del palco, ma anche del pubblico, dell’orchestra, del direttore d’orchestra e persino del direttore di scena.

Una telecamera era stata puntata direttamente sul libretto, in modo da consentire di seguire l’opera “da dentro”, con il regista. Incredibile!

E per quanto riguarda i musei?

Anche qui parto dall’Inghilterra: la Tate Gallery ha un intero dipartimento dedicato al digital marketing.

Nell’estate del 2014 hanno realizzato un evento online, “After Dark, con protagonisti quattro robot che per tre notti consecutive hanno attraversato le gallerie della Tate Britain guidati da utenti che si erano registrati in precedenza al sito dell’evento. Il risultato è stato molto suggestivo, un modo di visitare il museo che aveva il sapore di una meravigliosa scoperta, quasi fantastica.

E a proposito d’interazione con il pubblico mi piace ricordare anche un progetto del Brooklyn Museum di New York: da qualche anno il museo ha attivato un blog curato personalmente dal direttore generale e dai responsabili degli altri dipartimenti. Si tratta di un blog interattivo dove il curatore della mostra descrive, discute e in qualche misura ridefinisce il concept della mostra insieme agli utenti. Molto interessante.

E nel settore turismo?

Per quanto riguarda il turismo – dove a mio avviso ci sono gli esempi più avanzati di comunicazione social –  l’esempio più rilevante è senza dubbio quello di MySwitzerland.com, un ente privato a cui il governo svizzero ha demandato la promozione turistica del territorio e che in pochissimo tempo ha costruito un sito fantastico e portato da 18mila a oltre un milione e mezzo i fan della pagina Facebook. Un ottimo lavoro che ha cambiato completamente il volto turistico della Svizzera, aumentando fortemente le presenze turistiche in quel Paese.

Su questa scia si stanno muovendo anche altre nazioni: la Croazia, il Brasile (che nel 2016 sarà impegnato nelle Olimpiadi) e il Regno Unito. Anche in Italia ci sono esempi interessanti in questo ambito: penso al Trentino Alto Adige, per esempio, che ha una comunicazione social di altissimo livello, e così la Puglia, l’Umbria e l’Emilia Romagna.

E fuori di dubbio che il racconto di un territorio e dei suoi punti di forza sia sempre di più connesso all’idea di cultura.

Occuparsi di cultura per Andrea Maulini è stato un colpo di fulmine?

Non proprio. È una cosa che si è costruita attraverso un lavoro più che ventennale come consulente di una struttura come il Piccolo Teatro di Milano, da sempre all’avanguardia nella comunicazione e nel marketing culturale.

Nel 1997, quando ancora molte aziende non avevano un sito internet, ci ha permesso ad esempio di lanciare una community web che oggi conta 140mila iscritti. E, da lì, ho sviluppato esperienze in numerosi enti culturali, dai teatri ai festival, ai musei, alle realtà di turismo culturale.

Non mi stancherò mai di dirlo: il pubblico della cultura è un pubblico veramente evoluto, iperattivo. Lavorare in questo contesto – al di là delle banali critiche in stile “con la cultura non si mangia” – io lo considero un privilegio perché ti fa capire quanto tu sia avanti rispetto a tante cose, non tanto perché tu sei più intelligente o preparato, ma perché il pubblico culturale è più avanti. E le aziende spesso se lo sognano un pubblico così…

Ma in una società attraversata da tanta violenza, persino nei luoghi che ‘fanno’ cultura (penso al Bataclan di Parigi, al Museo del Bardo di Tunisi, per non parlare della distruzione di siti archeologici come quello di Palmira), la cultura è ancora una priorità?

Musei, teatri, sale da concerto non sono strutture impermeabili, anzi spesso sono gli eventi esterni a trasformarsi in stimolo artistico. In fondo, dare testimonianza del presente attraverso l’arte è compito della cultura e questo vuol dire che la comunicazione delle istituzioni culturali deve diventare ancora più coinvolgente e immediata.

Non è più possibile pensare esclusivamente alla parte artistica di un progetto culturale, è sempre più importante mettersi in sintonia con il proprio pubblico e le sue idee ed emozioni. E i social sono fondamentali, per questo.

Credo che Andrea Maulini abbia profondamente ragione. A maggior ragione oggi, a poche ore dalla notizia che l’Orso d’oro del Festival del cinema di Berlino 2016 è andato al film documentario di Gianfranco Rosi, Fuocoammare. Un premio dedicato agli abitanti di Lampedusa e ai tanti (troppi) che non ce l’hanno fatta ad arrivare…

Grazie Andrea! #unaltromondopossibile #buonlavoro

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