Michele Trimarchi: vedo la cultura in una palude, ma studio Mozart. Ci salverà!

Che Michele Trimarchi sia un esponente doc del popolo “I care about culture” non ci sono dubbi. E che questo impegno lo viva con intensa passione (da vero siculo) sarà ancora più chiaro al termine di questa intervista.

Laurea in Giurisprudenza all’Università di Messina per cominciare, una virata (da manuale) nel campo della Public Finance in terra d’Oltremanica e poi navigazione a vista, in mare aperto, tra i flutti (perigliosi) dell’economia e del management della cultura.

Consigli di lettura per entrare in sintonia con il mondo di Michele Trimarchi? Non provate a dargli del “Lei” e, soprattutto, non fatevi spaventare da scene decisamente “splatter”, vedrete che alla fine trionferà… il cuore. E ora iniziamo.

Se Michele Trimarchi scattasse oggi una foto al sistema culturale italiano, quale immagine comparirebbe?

Una palude. Una grande palude con due elementi fondamentali: una distesa di sabbie mobili che invischiano e frenano in modo irreversibile quanti si muovono dentro questo pantano; e insopportabili miasmi che avvelenano l’aria intorno.

Visione decisamente apocalittica. Cosa ha provocato tutto questo? La mancata sintonia tra cultura ed economia?

Credo che il vero problema sia il difficile dialogo della cultura con se stessa. La cultura è un sistema evolutivo, nei contenuti e nelle modalità, nato all’interno di una società in perenne cambiamento che ha finito, però, per irrigidirsi e trasformarsi in un monoblocco granitico. Piuttosto che seguire la strada del cambiamento la cultura ha scelto quella della conservazione.

Un atteggiamento di pericolosa schizofrenia, a mio avviso. Per non parlare poi dello spettro invadente di Benedetto Croce e dell’idea che la cultura sia uno strumento morale, un beneficio sociale in quanto tale. L’Italia è vittima di un immobilismo consapevole e sempre più preoccupante.

Quale futuro intravedi per la cultura italiana?

Abbiamo davanti due opzioni: la prima, drammatica, è quella che porta al fallimento di un sistema che ha in sé da tempo i segni di una crisi irreversibile. Un declino che travolgerà tutto e tutti e che alla fine non potrà che portare a un cambiamento radicale. E amen….

La seconda opzione è legata allo sviluppo di un’area che io definisco “l’altrove culturale”, un luogo in cui abitano interessanti fermenti d’innovazione, dove la deregolamentazione non è una colpa e il finanziamento pubblico (pratica decisamente ricattatoria) non è considerata l’unica fonte di sostegno. Il mecenatismo è il risultato dell’intelligenza di poche persone e, come è noto, gli eroi non fanno sistema.

E in questo “altrove culturale” cosa succede esattamente? Si tratta di una peculiarità italiana?

Ci sono processi e scambi positivi legati soprattutto alle microproduzioni creative, iniziative in cui il termine “sponsor” è sostituito da quello di “complice”. Ci sono organizzazioni d’impresa impegnate a cambiare gli ormai vecchi e abusati protocolli. Certo si tratta di fenomeni ancora ‘scomposti’, ma è un aspetto che non mi spaventa, anzi, mi piace molto. Penso sia solo questione di tempo.

All’estero la situazione è diversa. L’approccio è sicuramente più laico e, aggiungerei, più intelligente rispetto a quello italiano. Il nostro è un sistema afflitto da un moralismo paralizzate. Solo l’ipotesi di affittare gli spazi di un museo per un evento privato, in Italia innesca una levata di scudi incredibile. All’estero il museo è un’impresa, non certo lo sportello periferico di una sovrintendenza!

Qual è lo stato dell’arte della formazione degli operatori culturale nel nostro Paese?

In Italia la formazione degli operatori culturali si basa su un eccesso di protocolli. Una situazione che ha alimentato il proliferare di etichette inutili e dannose e ha esaltato il valore del “pezzo di carta” a discapito della pratica sul campo. Sono convinto che ogni operatore culturale dovrebbe farsi guidare soprattutto dalla curiosità verso il mondo e dal coraggio di muoversi in settori non familiari. Il giorno prima di firmare un contratto importante, per esempio, il mio consiglio è di passare qualche ora all’interno di un supermercato per vedere come funziona in quel contesto il rapporto prodotto/consumatore.

Proposta inconsueta? Certo non per me. Io ho una formazione assolutamente anomala: nasco giurista e poi scelgo di occuparmi di economia e in particolar modo di un bene plastico e magmatico come la cultura. Sono un transfuga? Forse. In realtà mi sento soprattutto un curioso impegnato ad analizzare un mondo affascinante e pieno di suggestioni come quello culturale. Un mondo che sta cambiando rapidamente, in cui le domande aiutano a crescere molto più delle risposte.

Hai usato le definizioni “slow culture “ e “fast culture” in modo molto critico: ci spieghi in dettaglio queste due categorie e perché non sono la soluzione del problema?

La “fast culture” è la cultura della spettacolarizzazione (quella delle mostre evento) il cui unico obiettivo è ottenere l’attenzione della massa. Questa è una cultura che sostanzialmente non crede in se stessa e viene ‘consumata’ solo per mettere una tacca in più nella lista degli impegni ‘mondani’. Un’operazione fast nel senso peggiore del termine.

La “slow culture” è quella che crea valore dalle relazioni e dal dialogo, trattandoci da adulti e offrendo il suo valore multidimensionale nei percorsi a noi familiari: è credibile solo se messa in relazione con gli spazi urbani e il concetto di prossimità. Ma ciò che è importante ribadire è che la cultura è un processo e non un oggetto, e soprattutto NON è erudizione.

Nell’ultimo anno, la mobilitazioni del comparto cultura in Italia ha sicuramente registrato un’accelerazione (dal Manifesto del Sole 24 Ore alle recenti Invasioni digitali): uno scatto di orgoglio o spirito di sopravvivenza?

Io non credo si sia parlato a sufficienza di cultura ultimamente. Il Manifesto del Sole 24 Ore ha girato, ma all’indomani della mobilitazione non è successo nulla. La cultura da quasi due anni è assente da qualunque agenda politica e sociale. L’argomento al centro delle discussioni, al momento, è la contesa per aggiudicarsi il titolo di capitale della cultura europea 2019. Un’operazione che punta soprattutto all’acquisizione di sponsorizzazioni e che considero una battaglia senza nemici.

Quello di cui avremmo bisogno è entrare tra le priorità della politica. Dobbiamo esplicitare con chiarezza che la cultura ha un impatto qualitativo nelle nostre vite e nei nostri tessuti urbani, un valore insostituibile. In seconda istanza, è necessario cambiare le nostre richieste: non più denaro ma infrastrutture. E’ fondamentale.

Dal tuo contatto quotidiano con il mondo universitario quali sono le motivazioni e aspirazioni delle nuove generazioni di operatori ed economisti della cultura?

Non farei un discorso ‘generazionale’: tra gli studenti ci sono persone smart e senza pregiudizi (direi circa il del 20, 30% del totale), ma il resto è spaventato. La mia generazione ha protetto troppo i propri figli per permettere loro di scoprire il mondo. Devo confessare che non ho mai visto così tanta paura di affrontare il mondo come tra queste nuove generazioni, è come se vivessero attaccati a un salvagente. Mentre in realtà s’impara a camminare solo cadendo.

La Rete quale contributo sta fornendo al dibattito culturale italiano?

La Rete è un elettrodomestico con le sue ‘regole’, la cosa importante è porsi nei suoi riguardi con laica curiosità. Io vedo molta visione, speranza e persino poesia nel web.

Tre temi chiave di un’efficace comunicazione culturale oggi?

La comunicazione culturale può nascere solo se la cultura si organizza. Se la cultura rimane isolata, circoscritta alla dimensione di ‘club privato’ e non entra negli spazi urbani, diventa inutile ogni azione comunicativa. Bisogna poi sviluppare la capacità di comunicare morbidamente, imparare a personalizzare i messaggi. E, infine, puntare a innervare tutti gli spazi della società, permettere alla comunità di conoscere e vivere in prima persona l’arte quotidiana.

Il valore sociale della cultura è un valore riconosciuto ?

Il valore è riconosciuto, ma spesso come un fronzolo, quasi si trattasse di un paio di occhiali da indossare.

Una domanda personale: ricordi il tuo primo incontro con la cultura?Ho avuto la fortuna, da bambino di vivere in una casa con molti libri e un pianoforte.  Ricordo l’emozione di ascoltare L’apprendista stregone con mia madre che mi raccontava la storia e mi rendeva familiare la musica sinfonica.

Crescendo sono passato al rock. Avevo 15 anni quando ho ascoltato per la prima volta Life on Mars? di David Bowie (era appena uscito),  ne rimasi folgorato! L’ultimo David Bowie, lo confesso, mi appassiona di meno; tanto nella classica come nel rock convivono qualità poetica e un po’ di ciarpame.

Adesso ho deciso di scrivere un libro sulle opere italiane di Mozart, artista apparentemente morbido ma con una capacità espressiva veramente profonda e unica. La mia idea è che Mozart sia indispensabile proprio perché superfluo. Come l’amore…

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